Oscar Fuà Stampa

La mattina di quel terribile 4 dicembre 1944, fui uno dei pochi testimoni oculari del drammatico momento in cui perse la vita il caro Oscar Fuà.
Mi trovavo sugli spalti della torre dell’orologio di Brisighella dopo una notte piena di trepidazione e passata rocambolescamente. Facevo parte della 1a Compagnia comandata dal Capitano Gino Tedeschi, di Pratola Peligna, con il compito di infermiere-porta feriti. Il mio drappello di 30 patrioti era comandato dal tenente Laudadio. Quella notte mi si era affiancato, per mantenere i contatti col comando, un soldato polacco con la radiotrasmittente. Egli condivise con me tutti gli avvenimenti di quella lunga notte tra il 3 ed il 4 dicembre.

 

Ma perché mi trovavo quella mattina su quella torre, quando l’obiettivo della mia compagnia era un altro?
La sera del 3 dicembre assistemmo alla preparazione dell’attacco che i comandanti avevano deciso qualche ora prima. Gino mi voleva sempre vicino a lui. Si era instaurata fra lui e me quell’amicizia che di solito nasce fra comandante e soldato. Dopo l’illustrazione delle modalità dell’attacco, alle venti, partendo da casa Bicocca, iniziammo la marcia di avvicinamento, in discesa, verso il fiume Lamone che, benché fosse a soli quattro chilometri, raggiungemmo solo verso le ventuno.
Durante la marcia, nessuno parlava. Un silenzio di tomba. Ognuno era assorto nei propri pensieri. Restammo così quasi un’ora, in silenzio, il freddo ed il buio pesto, sull’argine del fiume. Solo il comandante ci ispezionava di tanto in tanto. Verso le ventidue, mentre ci somministravano un gavettino di cognac a testa, ci fu raccomandato che in caso di insuccesso, al segnale di un razzo, bianco, la compagnia avrebbe dovuto ripiegare. Alle ventidue e trenta iniziò il nostro cannoneggiamento sulla zona montuosa intorno al centro abitato. Durò circa venti minuti. Seguì l’ordine di passare il fiume. L’acqua non era molto alta, 40-50 cm, ma era fredda come il ghiaccio. L’attacco fu portato con quattro compagnie di patrioti; due destinate al centro e due, rispettivamente a destra e sinistra, fuori dall’abitato, con il compito di conquistare le alture a ridosso del paese, sbaragliare le eventuali resistenze e consolidare l’occupazione del centro abitato.
Alla mia compagnia fu assegnato il lato destro, ossia quello a ridosso della torre dell’orologio.
Io con la mia cassetta di pronto soccorso ed il soldato polacco con la sua radio trasmittente fummo assegnati ad uno dei quattro plotoni che componevano una compagnia comandata dal Tenente Laudadio, il quale ci collocò in testa alla colonna, subito dietro di lui. L’obiettivo era la cima del Monte della Siepe.
Tra il fragore della battaglia, i lampi delle cannonate ed i proiettili traccianti provenienti dal centro abitato che ne era sinistramente illuminato, noi del plotone di Laudadio continuammo la nostra marcia dentro un calanco, caratteristica morfologica di quei monti, fino ad arrivare, meravigliati di non trovare resistenza, quasi ad intravvedere la cima. All’improvviso, fummo investiti da una resistenza rabbiosa, accolti da granate di mortaio ravvicinate e fuoco di mitragliatrici. Io ed il mio amico polacco ci guardammo, buttandoci a terra e chiedendoci l’un l’altro se eravamo illesi; per fortuna lo eravamo.
Restammo in quella posizione non so per quanto tempo, aspettando il cessare del fuoco. Alzammo la testa per controllare la situazione e ci accorgemmo che eravamo rimasti soli. Intorno a noi non c’era traccia dei nostri compagni Ci domandammo dove fossero finiti. Stupiti, ci guardammo in faccia. Avevano conquistato la sommità del monte? Regnava intorno a noi una calma che ci lasciò perplessi per diverso tempo. Cercavamo una soluzione. Suggerii al polacco di chiamare il comando via radio, cosa che fece più di una volta: “Maria Adam Sugar, Maria Adam Sugar” una, due, tre, quattro volte. Era il messaggio di chiamata in codice. Nessuna risposta. Il polacco mi chiese: “Che cosa ne pensi?” “Penso che la sommità sia stata occupata dai nostri. Non può essere altrimenti, perché non è stato lanciato il razzo bianco”. Tornò a chiedermi cosa pensassi di fare ed io risposi di continuare a salire fino ad arrivare alla sommità del monte.
Così camminando carponi, proseguimmo l’ascesa che sembrava sempre più sicura tanto che cominciammo a camminare in piedi.
Eravamo ormai a qualche decina di metri dalla cima quando all’improvviso ci sentimmo intimare “Ainsopp”: arrendetevi! Ancora oggi
non so descrivere lo stupore e la paura di quel momento che di colpo ci sconvolgeva la vita. Il polacco conosceva quella parola: fu il primo a girare immediatamente i tacchi, seguito da me, mettendo più strada possibile tra noi ed i tedeschi. La cima, quindi, era ancora occupata! In un attimo capimmo che la situazione si era rovesciata, che la compagnia aveva ripiegato e che noi dalla posizione nella quale eravamo non avevamo potuto vedere il razzo bianco. Correndo a testa in giù, fummo accompagnati dal fuoco delle granate di mortaio ed inseguiti dalle raffiche di Spandau.
Dovevamo assolutamente cercare un riparo. Fu provvidenziale un ruscello che scendeva incassato, vi ci infilammo senza badare all’acqua. Potemmo così ripararci dalle schegge: fu la doccia che si aggiunse al bagno nel fiume di poche ore prima, ma fu la salvezza per noi. Però, non potevamo restare in quella posizione.
Tra uno scoppio e l’altro e balzando di qua e di là, raggiungemmo gli alberi di un boschetto e ci sentimmo subito più sicuri; avevamo messo una maggiore distanza tra noi e il nemico. Ci mettemmo distesi: io con la mia cassetta delle medicazione sulla testa ed il polacco con la sua radio, aspettando gli eventi.
Poco dopo il fuoco cessò, ma noi restammo, non sapevamo dove fossimo, qualsiasi movimento poteva esserci fatale. Così passammo tutta la notte. Solo ai primi chiarori dell’alba, potemmo vedere la nostra posizione: avevamo una torre alla nostra sinistra che sorgeva su un picco di roccia alto forse più di cento metri, quasi a strapiombo.
Aspettammo l’alba e al mattino decidemmo di raggiungere la torre. Ci sembrò impossibile salirvi, fino a che, aggirando il picco di roccia per cercare un sentiero, cosa non facile, finalmente lo trovammo ed iniziammo la salita. Ma un altro interrogativo ci assaliva: chi c’era sulla torre? C’erano i nostri? E se così non fosse stato?
Con il cuore in gola iniziammo l’ascesa ascoltando ogni minimo rumore, qualsiasi indizio, qualsiasi voce. Ormai eravamo quasi arrivati ad intravvederne gli spalti, quando, ad un tratto, sentimmo delle voci.
Con l’orecchio teso potemmo stabilire che provenivano da una grotta scavata nella roccia e fu così che pian pianino riuscimmo a percepire qualche parola. In dialetto abruzzese. Il cuore sussultò: avevo addirittura riconosciuto la voce di un caro amico d’infanzia, Peppino Puglielli. Era stato lasciato con altri a sorvegliare il sentiero. Entrammo nella grotta e finalmente sapemmo che la torre era tenuta dai nostri.
Dopo un breve scambio di notizie, salimmo sulla torre. La visione fu quella che segue a una battaglia. Tre ragazzi dei nostri uccisi da cannonate di mortaio (i corpi non erano ancora stati coperti) che avevano centrato in pieno la postazione delle mitragliatrici pesanti poste sul terrazzino della torre. Vi erano anche alcuni feriti. Ricordo bene che un ragazzo aveva preso una scheggia alla gola e che il vicecomandante Troilo gli teneva stretta con le dita la ferita per evitare il dissanguamento.
Nel vederci il comandante tirò un sospiro di sollievo. Mi prodigai subito a medicare i feriti. Intanto l’amico polacco, sollecitato dal vice comandante, si apprestò a chiamare il comando: “Maria Adam Sugar“ e finalmente potemmo avere riposta. Cosi sapemmo che nella mattinata ci sarebbe stato un altro attacco al Monte della Siepe. Questa volta portato direttamente dai polacchi.
Intanto la torre veniva tenuta costantemente sotto il tiro dei cecchini tedeschi. I patrioti dovevano rispondere al fuoco dalle feritoie e dagli spalti. Finanche il nostro cappellano militare, di cui non ricordo il nome, imbracciò un fucile a canna lunga – non lo avevo mai visto fare una cosa del genere- per rispondere colpo su colpo, stando bene attento a non esporsi troppo.
Verso le nove, iniziò il bombardamento che precede ogni attacco, dopo di che dalla nostra posizione potemmo vedere chiaramente che quella che avanzava era la compagnia Commandos, formata interamente dai Patrioti della Maiella, comandata dagli ufficiali polacchi.
Si distinguevano chiaramente le persone, perché la distanza era minima e la torre era in quota. Cosi, tra tanti, distinsi subito Oscar Fuà. Avanzava lentamente in posizione eretta portando sulle spalle una cassetta metallica di quelle che contengono i nastri per le mitragliere, seguiva di poco il suo porta mitraglia. Lo riconobbi subito, sapevo che faceva parte della compagnia Commandos, aveva una fisionomia del tutto inconfondibile: dall’elmetto gli spuntavano i capelli ricci. Era proprio lui. Quante volte avevamo giocato insieme da ragazzi!
Non finii questa considerazione che si scatenò un fuoco micidiale. I tedeschi, da assediati, attaccarono i nostri con tutti i loro mezzi: mitragliatrici, mortai, bombe a mano (quelle col manico di legno che potevano essere lanciate anche a cento metri di distanza). Ci fu un momento di smarrimento. Tutti si buttarono a terra, compreso Oscar. Parecchi si mossero subito, alcuni rotolavano per terra per cambiare posizione, altri cercavano di piazzare i mortai e le mitragliatrici.
Ma i tedeschi non davano tregua. La compagnia dovette ripiegare.
Io tenevo d’occhio, dall’alto della torre, Oscar che non si muoveva e pregavo Iddio che si mettesse al riparo almeno con la sola testa. Ma non fu cosi. Alcuni cercavano di cambiare posizione, altri rotolavano lungo la collina. Circa un’ora dopo, partì il soccorso in cerca dei feriti. Il portaferiti della compagnia Commandos era Tonino Pacella.
Lo vidi avvicinarsi ad Oscar sotto i colpi delle mitraglie tedesche che cercavano di colpire ogni cosa che fosse in movimento. Finalmente Pacella lo raggiunse, lo toccò e constatò che era stato colpito.
Purtroppo per lui, nemmeno l’elmetto poté cambiare il suo inesorabile destino in quel giorno funesto. Pacella lo afferrò per la caviglia e lo trascinò più in basso in un posto fuori dal tiro nemico. Ma non poté far altro che constatarne la morte. In quei momenti concitati non c’era posto per i compianti. Soltanto più tardi nella calma dei giorni che seguirono, la rabbia e la tristezza di aver perso un caro amico, un compagno d’infanzia e di avventura, occupò il mio cuore.

Antonio Bonitatibus