ELMONE (*) Stampa

Era bel “ragazzone”; a vederlo sembrava già un uomo, dimostrando più degli effettivi quattordici anni; nello stabilimento aveva la qualifica di ragazzo perché non aveva ancora l’età per essere assunto come apprendista meccanico; era addetto alla forgia, il suo compito consisteva nel tenere acceso e vivo il fuoco della fucina. Anch’io, quando entrai alla DINAMITE NOBEL, esattamente il 10 marzo 1941, fui assunto come ragazzo, quindi conoscevo la trafila delle qualifiche! La mattina del 27 agosto 1943, il mio capo reparto mi aveva assegnato il compito di saldare le lamiere per costruire un serbatoio di alluminio per il contenimento dell’acido solforico e acido nitrico, elementi essenziali ai fini della produzione della dinamite. I serbatoi, data la loro imponente stazza, dovevano essere necessariamente costruiti fuori officina, per cui il mio lavoro si svolgeva all’esterno della fabbrica, nel piazzale tra il capannone e il muro di cinta. Erano le 10,30 circa di quella mattina, soleggiata e limpida, quando squillarono le potenti sirene poste sulla torretta della caserma della milizia (piazzale Santa Monica) di Sulmona. Venivano messe in funzione per segnalare a tutta la valle Peligna il pericolo di incursioni aeree anglo americane; il loro suono avvertiva le popolazioni di correre al riparo nei rifugi antiaerei ricavati per lo più negli scantinati dei grandi palazzi. Per noi, dipendenti dello stabilimento polverificio DINAMITE NOBEL sito alle falde del monte San Cosimo, il suono delle sirene era considerato solo preallarme, poiché noi, considerati militari in quanto dipendenti di struttura militarizzata subordinata al Ministero della Guerra, potevamo lasciare il lavoro solo in caso di effettivo pericolo. Mi ricordo bene che io, pur continuando a saldare, ogni tanto sollevavo gli occhiali dal saldatore per dare uno sguardo al cielo; avevo le orecchie tese a ogni minimo rumore sospetto; mi consideravo una vedetta, essendo l’unico che lavorava fuori dell’officina, pronto ad allertare chi lavorava dentro, non solo i meccanici ma anche i falegnami. Ogni tanto interrompevo per qualche istante il lavoro; mi fermavo per scrutare il cielo, verso il Morrone, la Maiella e le altre montagne che racchiudono la nostra bella valle. Verso le 11, avvertii un rumore simile a un ronzio; m’insospettii, alzai gli occhiali scuri da saldatore ma non vedevo niente, eppure il ronzio era chiaramente avvertibile; allora mi dissi: forse “me lo fanno le orecchie”, come si suole dire qui a Sulmona; mi rassicurai e continuai a lavorare. Eppure quel ronzio era sempre più forte.

 

Poi lo sguardo andò nella direzione del Gran Sasso e notai delle striscioline bianche che sembravano delle fettuccine, come quelle della pasta ammassata che si fa al sugo; quasi incuriosito mi soffermai a guardare con maggiore attenzione il cielo da quella parte. , erano delle strisce, una a fianco all’altra; che cosa fossero mi era assolutamente ignoto, non ne capivo proprio niente; però con il passare dei minuti esse diventavano sempre più larghe e più vicine mentre il ronzio cresceva. La mia curiosità cessò quando gli occhi distinsero alcuni oggetti, non bene identificati, che precedevano queste strisce; all’inizio sembravano degli innocui uccellini ma dopo pochi minuti feci la scoperta più sconvolgente: erano aerei! Per fortuna la loro velocità di avanzamento mi dette tutto il tempo di riflettere; ormai era chiaro che si trattava di aerei da bombardamento. Senza esitare più un secondo capii che dovevo dare l’allarme. Corsi verso l’officina, ne spalancai le aperture d’accesso ed urlai a squarciagola con tutte le mie forze per superare i rumori dei macchinari, agitando anche le braccia per farmi notare da quelli che non potevano sentire. Correte! Scappate! Arrivano gli aerei da bombardamento! Così feci anche nella falegnameria. Quando furono tutti fuori, con un urlo di disperazione in gola, tutti si diressero verso il muro di cinta, posto a circa cento metri, che fu preso letteralmente d’assalto. Tutti cercarono di scavalcare quell’ostacolo alto circa tre metri. Ho ancora davanti a me l’immagine di quelle due ragazze bionde di Sulmona, gemelle, che io conoscevo, disperate perché nessuno le aiutava. Quando arrivai vicino a loro, notai subito lo sguardo angosciato di chi chiede aiuto. Non potendo fare altro, mi misi subito a cavalletto, e, aiutandole a salire, prima una e poi l’altra, riuscii a metterle a cavallo del muro da cui si buttarono giù verso l’esterno. Anch’io ebbi la sensazione che nessuno mi potesse aiutare; allora mi ricordai che nelle vicinanze, accanto al muro di cinta, c’era uno scarico di trucioli metallici accantonati per essere caricati e trasportati verso la fonderia, sotto il quale i fumatori avevano ricavato una “grotta” per fumare senza essere visti dalla vigilanza dello stabilimento. Così di corsa raggiunsi il cumulo e salendoci sopra non mi fu difficile oltrepassare il muro. Dietro al muro di cinta si estendeva la campagna, che a Pratola è denominata Piano la Torre dove mi fu facile correre e allontanarmi il più possibile senza mai distaccare gli occhi dal cielo. Ormai gli aerei erano talmente vicini che si distinguevano bene in tutta la loro imponenza; erano dei grandi quadrimotori, avanzavano lentamente, il rombo era opprimente; si notava bene che avevano un carico pesante. Mentre facevo queste considerazioni, avvertii gli scoppi delle prime bombe sganciate; colpivano all’inizio dello stabilimento. Abbastanza lontano dall’obiettivo degli aerei, forse 50-100 metri dal muro di cinta, mi buttai a terra cercando un riparo possibile; fu provvidenziale il solco che i contadini fanno per separare un podere da un altro; da quel punto aspettai che finisse il passaggio degli aerei e quindi, il bombardamento. Gli aerei li avevo sopra di me, era impressionante; un improvviso forte fragore, superiore a quello delle bombe, mi scosse tutta la vita, non potei fare a meno di alzare gli occhi al cielo per rendermi conto: era tutto un fuoco. Una bomba aveva preso in pieno un carro ferroviario fermo nel terminale del binario interno dello stabilimento (proprio a lato del nostro capannone), carico di materiale prodotto nello stabilimento e pronto per essere inviato alla stazione ferroviaria di Pratola Peligna Superiore; da qui il materiale sarebbe stato trasportato alle acciaierie di Terni per essere impiegato nella fabbricazione dei siluri marini. Il carro era volato in mille pezzi; ricordo che le ruote si librarono in aria come fossero ruote di una carrozzella per bambini! Appena dopo, una bomba cadde a 10-15 metri da me; le zolle di terra precipitarono anche sulla mia schiena; non persi la calma e fui attento a percepire tutto quello che mi succedeva intorno.

 

Appena l’ultimo aereo aveva sorpassato l’obiettivo mi alzai d’istinto e ripresi la corsa per allontanarmi sempre più. Purtroppo notai che un’altra squadriglia di aerei stava arrivando. Mentre correvo spasmodicamente mi trovai a fianco del cratere creato dall’ultima bomba; poteva avere una profondità di 6-7 metri e un diametro di 10-12 metri. Per non cadere dentro l’enorme buca fui costretto a calpestare la terra laterale dove i miei piedi sentirono qualche cosa di morbido, qualche cosa che si muoveva di sotto. per non detti peso al fatto, anche se ebbi subito la giusta intuizione: se l’istinto di conservazione mi spingeva a correre sempre più per allontanarmi da ogni pericolo, il solo pensiero che sotto quella terra potesse esserci una persona non mi dava pace. Volevo scappare ma le mie gambe erano sempre più rigide fino a quando non decisi di tornare indietro e andare a vedere chi era sepolto sotto la terra. Arrivato sull’ammasso di terra morbida, cominciai a scavare con mani con tutte le mie forze tenendo sempre sotto osservazione la posizione degli aerei della seconda ondata che si avvicinavano sempre di più. La ragione mi diceva di scappare via, ma il cuore mi spingeva a proseguire nello scavo per salvare la persona che era sotterrata: la solidarietà era più forte della paura. Ormai le dita delle mani perdevano sangue ma io continuavo a scavare; ebbi il primo risultato: apparve una ciocca di capelli! L’impeto si fece più forte, le ferite alle mani non mi davano alcun pensiero. La persona che stava venendo fuori (ormai si vedeva bene), era un ragazzo; alla fine mi apparve riverso a faccia in giù, le braccia piegate a croce per proteggere la testa e il viso. Appena riuscito a mettergli fuori la testa, udii un gemito, gli girai la testa e notai che fortunatamente era ancora vivo! E chi era? Porca miseria, era ELMONE! Lo rincuorai e gli dissi “Elmo, sei tu? Dai! Dai! Che gliela facciamo!” Intanto la seconda ondata di aerei era sempre più vicina. “Dai, alzati Elmo e corri con me”, insistetti con concitazione. Elmo mi rispose che non poteva perché aveva ancora tanta terra sulle gambe; mi disse “sto bene ora, vai, corri, scappa tu, ora posso fare da me”. A sentire quelle parole mi sentii più leggero, le dita sanguinavano ancora ma non esitai a mettere fuori dalla terra le spalle e tutto il resto del dorso del ragazzo. Scoppiavano già le prime bombe della seconda squadriglia quando ripresi la mia corsa per allontanarmi il più possibile dall’obiettivo principale del bombardamento alleato, il polverificio DINAMITE NOBEL della Montecatini. Ormai, sulla strada asfaltata che conduce all’abitato di Pratola Peligna, ero lontano dallo stabilimento e, pur non avvertendo più il pericolo immediato, sentii, però, che le bombe scoppiavano anche verso Sulmona. Adiacente alla strada scorre un fiume; per maggior sicurezza mi diressi in quella direzione. Arrivato sull’argine del fiume, trovai altre persone che avevano avuto la mia stessa idea: era una famiglia di contadini sorpresa nei campi dal bombardamento, padre, madre e due figlie grandicelle che, immersi nell’acqua fino alla cintola, cercavano di stare nascosti mentre giungeva la terza ondata di aerei. Le ondate furono cinque, ognuna di ventuno aerei definiti superfortezze volanti, quadrimotori del tipo “LIBERATOR”. Finito il terzo bombardamento, il mio primo pensiero fu di dirigermi verso casa a Sulmona. Presi la via dei campi perché era la più sicura; camminavo lentamente perché mi accorsi che avevo perso i sandali, forse nella corsa di allontanamento o forse nell’acqua del fiume. Ormai ero giunto nelle vicinanze della stazione ferroviaria di Sulmona, quando giunse la quinta ed ultima ondata di aerei che scaricarono le loro bombe sulla stazione ferroviaria e dintorni. Quando fui nell’abitato della frazione San Rufino mi resi conto della distruzione inaudita causata dagli aerei della quinta ondata. La stazione ferroviaria era distrutta e i morti erano tanti perché il bombardamento coincise con l’orario dell’arrivo dei treni delle quattro linee ferroviarie ( L’Aquila, Pescara, Roma e Caianello). I passeggeri avevano cercato di nascondersi e ripararsi nel boschetto di fronte alla stazione, dove ora insiste la chiesa della Madonna Pellegrina. La scelta fu tragica perché il boschetto, forse per un errore, fu preso in pieno dalle bombe. Una vera ecatombe si presentava davanti ai miei occhi: tanti morti e tanti feriti che urlavano e piangevano. Davanti a quello scenario spaventoso non sapevo dove guardare e che cosa fare Il mio desiderio fu di tornare a casa, lungo la strada più sicura, che ritenni essere quella che dalla stazione conduce a Sulmona. A metà strada vidi altre situazioni tragiche e angosciose: la rimessa dei tram era stata colpita in pieno, una carrozzella era rovesciata con il cavallo agonizzante per la grossa ferita alla pancia e il vetturino a terra, ormai privo di vita. All’altezza di San Panfilo presi Viale Rooswelt perché qui potevo camminare meglio senza scarpe mentre sulla circonvallazione orientale, non asfaltata, avrei trovato qualche difficoltà. Così raggiunsi Corso Ovidio e arrivato all’incrocio di Via Barbato proseguii verso Via Ercole Ciofano; la mia casa si trovava in una traversa di Via Quadrario (Vico delle Macerie). Lungo il percorso mi trovai davanti un mucchio di macerie causato da una bomba che aveva distrutto la chiesa di San Carlo. Scalzo fui costretto a salire sulle macerie della chiesa per proseguire ma qui vidi mia sorella Lucia in atteggiamento di attesa. Per me fu come vedere il sole in un giorno buio. Mio padre aveva distribuito i famigliari in ogni angolo delle strade dalle quali sarei potuto ritornare a casa. Lucia, con le braccia alzate, mi chiamò ed io, per l’ansia di abbracciarla, non mi accorsi di un cavo della corrente elettrica che mi sbarrava la strada e su cui inciampai cadendo rovinosamente sulle macerie e fracassandomi le ginocchia e parte delle gambe. Pur in quelle condizioni, la gioia e la commozione che mi presero quando riabbracciai i miei, che mi aspettavano vicino alla sede dei pompieri, allora posta nel centro storico di Sulmona, fu più forte del dolore. Trascorsi la sera e la notte molto agitate e confuse tra il fragore delle bombe e la visione del viso pallido di Elmone che mi appariva a tratti tra il dolore della ferita alle ginocchia che quel modesto cavo della corrente era riuscito a provocarmi, dopo che ero uscito vivo e praticamente indenne dai micidiali bombardamenti. La mattina seguente, la prima cosa che feci fu quella di interessarmi di Elmone; seppi che era stato ricoverato in ospedale per accertamenti, per sospetto stato di asfissia. Andai subito all’ospedale; salii con ansia le scale per raggiungere le corsie, una suora, che conoscevo, mi aiutò a trovarlo. Non descrivo la gioia e l’emozione di entrambi quando ci abbracciammo; mentre i nostri occhi si inumidivano, un groppo alla gola mi consentì di dire solo una parola: CIAO!

 

Tonino Bonitatibus

 

(*) “Elmone”, era Elmo Santacroce figlio di Antonio, all’epoca Comandante delle guardie dello stabilimento Dinamite Nobel, residenti entrambi a Pratola Peligna. Dopo la guerra emigrò con la famiglia negli Stati Uniti.


 

Salve A. N. Brigata Maiella.


La vita è strana … per puro caso navigando nel vasto mare di internet ho letto le memorie "Elmone" di Tonino Bonitatibus . Per me leggere Elmone è stato come riascoltare le parole di mio nonno Silvano (fratello di Elmo Santacroce) e rivivere quei racconti familiari, presi un po’alla leggera come tutti i racconti dei nonni e dei loro tempi, che rimangono impressi nella memoria di un nipote.
 

Chi vi scrive questa e-mail è il nipote di Elmo, Silvano Santacroce, figlio del figlio di Silvano Santacroce fratello di Elmone venuto a mancare da una 10 di anni.
 

Questa storia l’avrò ascoltata mille volte e ringrazio di cuore il signor Tonino Bonitatibus per averla condivisa con voi e per l’aiuto e la generosità di quel gesto cosi eroico in un momento cosi difficile.
 

Mi sembra giusto ora informarvi che Elmo è ancora vivo, gode di ottima salute e vive con la sua famiglia in Venezuela.
 

Un caloroso saluto a tutti Silvano Santacroce.

25 luglio 2012