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Dopo 90 anni dal 2 agosto 1922, chi ricorda Francesco Pantaleo assassinato dai fascisti? PDF Stampa E-mail

L’Abruzzo non fu durante il fascismo, come solitamente si ritiene, un’isola felice. Nel corso del 1922, anche nella nostra regione si scatenarono una serie crescente di violenze. Accoltellamenti, uccisioni, occupazione di paesi a mano armata, attacchi alle Camere del lavoro, attentati ai tralicci. Ma il vertice della ferocia si raggiunse a Sulmona. Non ci si limitò ad uccidere, ma si infierì sulla vittima. Una storia ormai caduta nel più totale oblio e di cui resta una scarna documentazione.

 

Francesco Pantaleo era un sarto di 33 anni, un onesto lavoratore, sposato e con figli. Aveva un solo torto, era socialista. Il 2 agosto del 1922, all’imbrunire, di ritorno da una passeggiata in campagna con gli amici, passava vicino alla “Fontana del Vecchio”, il cosiddetto “Vaschione”, dove sostava un gruppo di fascisti in camicia nera. Li capeggiava un giovane barone, Domenico Tabassi, un pregiudicato, già accusato “di lesioni e sparo d’arma in luogo abitato” e di “porto d’arma senza licenza”, in stato di “ubriachezza volontaria” durante una partita a carte in un caffè cittadino. Il settimanale “La riscossa d’Abruzzo”, del 20 maggio ’22, precisa che aveva sparato due colpi di revolver, “uno contro l’avversario col quale era venuto a diverbio, ed uno contro un carabiniere che si era avvicinato per compiere il suo dovere”. Il giornale si indigna per il trattamento compiacente delle autorità: ”non era munito di porto d’arma, l’arma era stata denunciata. Dopo venti ore dall’arresto è stato scarcerato!”. Con sentenza del 4 agosto 1923, condannato in prima istanza “a sei mesi e giorni tre di reclusione”, commutati in soli tre mesi e, infine, con il regime fascista al potere, del tutto amnistiato.

“La riscossa d’Abruzzo”, del 12 agosto ’22, nel dare notizia di uno sciopero, denuncia chel’unico incidente è stato l’assassinio del sarto Francesco Pantaleo, ex combattente e socialista, pugnalato dal fascista Domenico Tabassi fu Annibale. Il fascista già tante volte protetto dalla P.S. è latitante. Al povero ucciso furono persino proibiti i funerali, e la pubblica opinione ne è rimasta indignatissima”. Oltre un quarantennio dopo, Gisfrido Venzo, su “Abruzzo nuovo” del 1-15 agosto 1966, ricostruisce l’accaduto sulla base delle dichiarazioni di un testimone oculare. Il pretesto dell’assassinio sarebbe stata una banale cravatta a farfalla portata dalla vittima. Il barone brandendo un pugnale si scagliava contro il giovane sarto conficcandoglielo nel fianco. Grondando sangue, Pantaleo raggiungeva l’ospedale, allora al palazzo dell’Annunziata. Ma vi moriva qualche ora dopo. I carabinieri invece di arrestare l’assassino, si presentarono in ospedale per arrestare la vittima, mentre soldati e carabinieri pattugliavano in assetto di guerra il rione dove Pantaleo abitava. Ma la persecuzione era solo all’inizio. Con le tenebre si rappresentava una scena barbarica. Verso le due di notte, riferisce ancora Venzo, una squadraccia fascista, minacciando il guardiano dell’obitorio, si impadroniva della salma e la trasportava al cimitero al canto di inni turpi e osceni. Divenuto tacitamente martire dell’antifascismo, cominciarono a comparire sulla sua tomba mazzi di garofani rossi, che i fascisti si affrettavano a togliere. Si arrivò al punto che undici anni dopo, il 24 marzo 1933, il podestà, Guido Bellei emanò una vergognosa ordinanza. Prendendo a pretesto la mancata richiesta di autorizzazione dell’epigrafe sulla tomba, la faceva rimuovere, sostenendo che non poteva più “tollerarsi un simile sconcio” che “suonava offesa ai fascisti”. Un evidente pretesto, perché l’epigrafe parlava genericamente di morte per ”mano assassina”. Ma la persecuzione nei confronti dei resti del sarto socialista non era ancora finita. Durante la guerra la salma fu trafugata. E non si è mai saputo dove sia finita. Scomparsa. I parenti non riescono ancora a rimarginare quell’antica ferita. Finalmente il Comune, nell’aprile del 1945, provvide a dedicare a Francesco Pantaleo la via già denominata “Posta Vecchia”, anche detta via del Balilla. Con la stessa cerimonia si dedicarono altre strade ai grandi dell’antifascismo, da Tresca a Gramsci, Matteotti, Don Minzoni, Roosevelt, e tanti altri, rivoluzionando la toponomastica cittadina. Il barone assassino non ha passato in galera nemmeno un giorno. Fu amnistiato, con sentenza del 27 dicembre 1922 della Corte d’Appello de L’Aquila, perchè il delitto era stato commesso “per un fine nazionale immediato e mediato e non già per motivi esclusivamente personali” e, peraltro, la morte “non sarebbe sopravvenuta senza il concorso di condizioni preesistenti (?!) ignote ad esso Tabassi”. L’assassino fu gratificato con un impiego al Comune di Sulmona, che conservò anche dopo il ritorno della democrazia. Infatti, processato e condannato nel 1947, fu nuovamente amnistiato.

Ezio Pelino

 


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