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Storia della Brigata «Maiella»

Discorso dell’Avv. Nicola Troilo in occasione della presentazione
del suo nuovo libro sulla “Brigata Maiella”

Roma, 10/2/2011

Desidero innanzi tutto ringraziare gli oratori che mi hanno preceduto per l'onore che hanno voluto attribuire a me e al mio libro. Sono commosso per i messaggi inviati da alte autorità dello Stato che testimoniano l’importanza che ancora si riconosce alla Resistenza e alla Guerra di Liberazione. Ringrazio l'Associazione “Roma Nuovo Secolo” ed il suo Presidente per la loro disponibilità e per il loro impegno nell’organizzazione di questo convegno. Ringrazio ancora mio fratello Carlo per l’incomparabile aiuto che mi ha prestato per realizzare la manifestazione di oggi. Mio fratello Carlo che, tra l'altro, è autore di un bellissimo libro sulla seconda parte della vita pubblica di nostro padre, quella che lo vide Prefetto di Milano. Ringrazio inoltre l'Editore Mursia che si è sobbarcato un compito non facile e ringrazio infine tutti gli intervenuti che sono presenti in così gran numero.

Nel libro matricola della Brigata Maiella - custodito presso l’ Archivio di Stato di Chieti - risultano arruolate 1775 persone, ma per diversi motivi che qui sarebbe troppo lungo elencare, al momento dello scioglimento della formazione i patrioti effettivamente riconosciuti furono circa 1.200. Tantissimi di loro, nei primi anni del dopoguerra, con mio grande dolore, sono emigrati per sfuggire alla miseria delle nostre montagne e alla ricerca di un futuro migliore - a Roma, a Milano, in Svizzera, in Francia, in Belgio, in Germania, in Canada, negli Stati Uniti, in Venezuela, in Cile, in Argentina, in Australia e persino in Nuova Caledonia. Moltissimi sono morti in tutti questi anni trascorsi dalla fine della guerra per l'inesorabile scorrere del tempo per cui penso che attualmente i patrioti viventi siano non più di una cinquantina.

Parliamo dunque di Garibaldi? Parliamo dei Mille di Garibaldi? Ha un senso - a distanza di quasi settanta anni dalla fine della guerra - pubblicare un libro sulla Resistenza? È la domanda che mi sono posto tante volte prima di consegnare il libro all'editore Mursia. L'alto numero di persone che sono qui presenti, le parole pronunciate dai precedenti oratori, i messaggi pervenuti, mi danno oggi la risposta, che in fondo non è mai stata rimossa dalla mia profonda coscienza: sì, ha ancora un senso. Perché pur in un'Italia cosi radicalmente diversa da allora, pur in un Paese così profondamente turbato, deluso e stanco, dobbiamo sentire il dovere di non dimenticare.
Di non dimenticare quel mondo contadino ormai scomparso, dal quale sorse la maggior parte dei patrioti, quel Paese devastato e allo sbando del 1943, quel movimento di popolo che nacque spontaneo dai lutti e dalle rovine causati dalle sciagurate guerre fasciste.
Nel meno felice dei suoi libri (De Profundis) il grande giurista e scrittore Salvatore Satta scrisse che l’8 settembre 1943 aveva segnato la morte della patria. È parso a chi visse quei tempi, nello sgomento generale, che fosse effettivamente così. Ma così non fu, solo se si pensa che già nel detto settembre si verificarono i combattimenti di Roma a Porta San Paolo, i fatti di Boves e, cominciò a nascere la Resistenza all’invasore nazi-fascista. Si rialzò il tricolore, umiliato dalla vergognosa fuga del Re e del Governo Badoglio; si udirono parole come Libertà, Dignità, Riscatto, Onore.
I patrioti della Maiella furono tra i primi ad impegnarsi in questo riscatto e a condurre una lotta senza tregua, durata oltre 15 mesi, contro l'oppressore. Ma non voglio dilungarmi sulle gesta della Brigata Maiella che avete già letto o che leggerete nel libro che qui viene presentato.
Prima di parlare del libro debbo dare notizia di due fatti gravissimi, che hanno suscitato in me rabbia, indignazione e purtroppo anche un senso di frustrazione: - circa due mesi fa il monumento eretto in onore della Brigata Maiella e collocato in un parco intitolato alla Brigata stessa in un quartiere nuovo della periferia di Bologna è stato danneggiato e imbrattato da scritte fasciste; - circa una settimana fa la sede della Fondazione Brigata Maiella, sita in una casa isolata di Gessopalena, è stata devastata. Gli ignoti vandali hanno portato via tutte le storiche fotografie attaccate alle mura e molti documenti. L'offesa recata a coloro che hanno combattuto per la libertà è un'offesa alla libertà stessa, è un attentato alla libertà.
Per cui tornano con forza alla mente le parole di Piero Calamandrei secondo cui la libertà non si conquista una volta per sempre ma va conquistata e difesa giorno per giorno contro tutti i fascismi contro chi vuole ridurla o soffocarla. E tornano alla mente anche le parole che Ferruccio Parri rivolse ai giudici del processo di Savona: "la mia avversione al fascismo è perentoria e irriducibile perché è avversione morale. Contro la mia persona il fascismo ha bastoni e manette, contro la mia coscienza è impotente". Ecco, l'avversione al fascismo deve essere, prima che politica, morale. Questo non dimentichiamolo mai.

Venendo al libro debbo subito dire che sia nella prefazione della prima edizione, sia nella quarta di copertina dell'attuale edizione, si accenna al fatto che io ho collaborato con mio padre alla costituzione e alle prime attività della Brigata Maiella. Sono dunque obbligato, per rispetto degli ascoltatori, a parlare un po' di me (cosa che nel libro non faccio mai). E ciò mi accingo a fare non senza dolermi del fatto che altri - che hanno combattuto veramente la guerra - per timidezza, per ritrosia, per il limitato livello socio-culturale, perché nessuno li ha adeguatamente stimolati, per tanti altri motivi, non parlano, non hanno parlato, salve poche eccezioni che si contano sulle dita di una sola mano: e avrebbero avuto ben di più da raccontare che non io, ragazzino non ancora quattordicenne, che ho fatto così poco in quel contesto. Così che mi trovo nella situazione, per me molto imbarazzante, di essere quasi l'unico testimone "parlante" di quelle vicende.
Ma prima di parlare della nascita della Brigata Maiella ritengo necessario, per meglio inquadrare le vicende e il clima dai quali, appunto, nacque la Brigata, fere un passo indietro e ricordare l'occupazione tedesca della zona montuosa della provincia di Chieti.

L'occupazione tedesca del mio paese, Torricella Peligna, dal settembre al dicembre del ‘43, fu molto dura: i tedeschi cominciarono subito a dimostrare la loro protervia e il loro odio per gli italiani; prepotenze, ruberie, saccheggi, violenze, furono all'ordine del giorno: e più i tedeschi verificavano specularmente l'odio che la popolazione manifestava nei loro confronti, gli occhi duri dei vecchi, delle donne e dei ragazzi, più si inferocivano, perche oscuramente capivano che prima o poi quella popolazione si sarebbe ribellata. Sotto la loro arroganza si scopriva un senso di paura.
Il 19 ottobre vi fu una fulminea incursione delle S.S. a caccia di uomini da portare a lavorare alle fortificazioni di Roccaraso. Furono catturati una quarantina di uomini tra cui mio padre: ma con incredibile sangue freddo mio padre approfittando di un momento di distrazione dell'ufficiale tedesco che lo aveva invitato a salire sul camion, girò attorno al camion e calmissimo a passo lento, con l'impermeabile sotto braccio, si avviò verso casa. Io, che avevo assistito a tutta la scena, lo raggiunsi e lui mi disse sibilando di correre ad aprirgli la porta della cantina. Entrò in casa dalla cantina e si rifugiò subito in soffitta davanti agli occhi attoniti dei familiari che non avevano capito nulla di quanto era successo. Se quel giorno mio padre fosse stato preso la Brigata Maiella non sarebbe mai nata.
Un altro episodio che mi vide protagonista avvenne qualche giorno dopo.
Un reparto tedesco comandato da un tenente aveva requisito la nostra casa costringendo me e la mia famiglia in due sole stanze. Tornavano la sera tardi e cominciavano a bere, si ubriacavano, urlavano cantavano, rompevano bottiglie e bicchieri. Notti da incubo. Finalmente, una mattina, capii che se ne stavano andando ma prima di andarsene cominciarono a rubare tutto ciò che era in casa e due marescialli giganteschi iniziarono ad infastidire mia madre e mia zia. Compresi immediatamente che dovevo chiedere aiuto: saltai dalla finestra della cucina in strada, passai letteralmente tra le gambe di un tedescone di guardia che mi urlò dietro parole incomprensibili ma per fortuna non mi sparò e corsi a perdifiato a cercare una signora che parlava tedesco ed una anziana signora che mostrava a tutti una foto del figlio fascistissimo in divisa da camicia nera. Accorsero queste signore e presto si radunò un capannello di gente; si creò una scena tra il tragico e il grottesco: la Signora Madonna sbraitava con il tenente, l'anziana signora mostrava ai tedeschi la foto del figlio urlando: mio figlio fascista! Mio figlio Africa!, finché non arrivò un colonnello medico (l’unico tedesco " per bene" che conobbi in quei mesi) che ordinò al tenente di andarsene e di lasciarci in pace.
Ma il compito più impegnativo che assolsi tra l'ottobre e il novembre fu quello di rifornire gli uomini alla macchia. È evidente che dopo l’incursione delle S.S. gli uomini scampati alla cattura non potevano restare in paese e dunque si rifugiarono in case di campagna, in masserie isolate molto lontane dal paese. Mio padre fu tra questi: trovò rifugio, assieme ad altri, in una masseria della famiglia Antrilli che - a rischio della vita - li ospitò. La masseria era distante dal paese circa un'ora e mezza di cammino e bisognava che, ogni tre-quattro giorni qualcuno ci andasse per rifornire gli uomini nascosti di ricambi di biancheria, di tabacco (quando se ne trovava), di viveri. Questo compito non poteva essere svolto dalle donne perché una donna, o più donne, che uscissero dal paese con sporte e cesti dirette verso la campagna, avrebbero destato nei tedeschi molti sospetti. Toccò quindi a noi ragazzi occuparci di questa incombenza e così io feci, alle volte da solo, alle volte con qualche amico: ragazzi con uno zaino sulle spalle che andavano in giro come per una passeggiata, destavano meno sospetti. Ricordo quei percorsi, per sentieri fangosi, ricordo quegli uomini sbadati che mi aspettavano con ansia, ricordo la gioia di potersi arrotolare una sigaretta.
Un giorno mi capitò di ripartire per il paese più tardi, quando stava già per farsi notte, perché mio padre mi trattenne e - cosa che lui, così riservato, non aveva mai fatto - volle raccontarmi tutta la sua vita, da quando undicenne fu mandato in collegio a Sulmona, alla sua partecipazione alla prima guerra mondiale, al come e al quando nacque la sua fede socialista, alla sua vita di perseguitato dal fascismo. Non so ancora perché lo fece ma ritengo che mi considerasse abbastanza grande per capire e forse pensò che avremmo potuto non rivederci più. Mi incamminai dunque che era quasi notte e, per evitare i luoghi dove le sentinelle tedesche si appostavano per il coprifuoco, percorsi sentieri secondari. Pioveva a dirotto e non avevo nulla che somigliasse ad un ombrello o ad un impermeabile. Ero bagnato come un pulcino e intravvedevo così lontane nell'oscurità le case del paese che avrei dovuto raggiungere. Mi sentivo così solo e stanco e spaventato e scoppiai a piangere, un pianto disperato e violento. Ma quando arrivai finalmente a casa e bussai al portone - nel modo convenzionale che avevamo concordato - mia madre mi spogliò, mi fece sedere davanti al caminetto, mise intorno i miei indumenti ad asciugare (non avevo molti ricambi). Guardavo il fuoco con occhi asciutti ora, ma alle domande della famiglia seppi solo rispondere: "papà sta bene stanno tutti bene; ma laggiù non ci torno”.

Alla fine di novembre si capì che la situazione andava precipitando.
I Tedeschi fecero saltare in aria le centrali elettriche di Taranta Peligna e la zona intera piombò nel buio. Si facevano sempre più insistenti le voci che i tedeschi si apprestavano ad ordinare alle popolazioni di lasciare tutti i paesi tra il Sangro e l'Aventino che sarebbero stati fatti saltare in aria con le mine per creare una "terra bruciata" che rendesse più difficile l'avanzata degli Alleati. E così fu: per Torricella l'ordine arrivò nelle prime ore del mattino del 4 dicembre e avemmo poche ore per lasciare le case. Riempiti in fretta e furia valige e fagotti lasciammo casa verso le quattro del pomeriggio, senza una meta, senza sapere dove andare. Dopo circa un'ora di cammino trovammo rifugio in un'aula in disuso di una scuola rurale dove ci accalcammo in ventiquattro persone e qui restammo per oltre una settimana in balìa dei tedeschi che andavano e venivano, urlavano, minacciavano, sparavano in aria col chiaro scopo di terrorizzare la gente. E per fortuna non avevano ancora cominciato ad uccidere uomini, donne, vecchi e bambini come avrebbero fatto di lì a poco (le stragi e gli eccidi degli alpenjager sono diffusamente narrati nel libro). Dovevamo subito uscire da quella situazione e così, in un piovoso pomeriggio, riuscimmo fortunosamente a varcare le linee del fronte e a raggiungere Casoli, paese già liberato dagli Alleati, dove già da giorni era accorso mio padre nel disperato tentativo di convincere gli inglesi a proseguire l'avanzata per salvare (almeno in parte) Gessopalena e Torricella. Tentativo purtroppo fallito per la diffidenza degli Alleati.

Per tutto il mese di dicembre mio padre fu impegnato a Casoli con i Comandi Inglesi per tentare di convincerli a costituire una formazione volontaria che li affiancasse nella liberazione della zona, nonché a raccogliere proseliti per tale iniziativa, mentre il suo più stretto collaboratore, Vittorio Travaglini, si affannava nel tentativo di rendere meno drammatica la situazione degli sfollati che a centinaia, a migliaia, continuavano ad affluire a Casoli in condizioni disperate.
Feci dunque quello che qualsiasi bravo ragazzo di tredici anni e mezzo avrebbe fatto: aiutai mia madre e mia zia a mettere d'accordo il pranzo con la cena, a cercare e trovare qualcosa da mangiare giorno per giorno. Per questo feci lunghe camminate nelle borgate intorno a Casoli alla ricerca di un litro di latte, di qualche uovo, di un pezzo di formaggio, di una bottiglia d'olio. Cercai anche di procurarmi qualche soldo vendendo vino ai neozelandesi (che ne andavano matti) in cambio di sigarette che poi rivendevo, oppure scaricando i camion inglesi carichi di materiali per averne in cambio qualche arancia o una scatoletta di carne. Finita l'occupazione tedesca era finita la paura, ma la fame e il freddo no. Nella casa ospitale in cui avevamo trovato riparo dormivamo in otto per terra, sopra materassi semisquarciati, con uno straccio di coperta addosso, in uno stanzone con le finestre senza vetri, infranti dalle cannonate, da cui entrava un freddo cane, oltre al frastuono delle artiglierie inglesi che sparavano tutta la notte.

Così passò il mese di dicembre ma quando finalmente - per merito soprattutto del Maggiore londinese Lionel Wigram (che purtroppo morirà in combattimento poco più di un mese dopo alla testa della Brigata) gli inglesi acconsentirono alla costituzione di una formazione partigiana, cominciò per me un periodo di frenetica attività.
Mio padre designò un giovane trentenne di Casoli (anche lui morirà trucidato dai tedeschi a Pizzoforrato) di raccogliere le domande di arruolamento e lui mi chiese di dargli una mano. Passai così molto tempo in una desolata aula del palazzo scolastico o nella anticamera della casa che ci ospitava a ricevere le lunghe file dei giovani e degli uomini che volevano arruolarsi. Nicola ed io prendevamo nota delle generalità dei volontari e del paese da cui venivano e domandavamo se avevano già prestato servizio militare e ciò sia per cercare di collocare nello stesso plotone coloro che appartenevano allo stesso paese, sia per individuare quelli che potevano avere doti di comando. Cominciammo quindi così anche ad abbozzare i ruolini dei plotoni, che gli inglesi volevano composti da non più di trenta persone, e ad annotare chi poteva essere il comandante. Ovviamente mio padre approvava o meno il nostro volenteroso operato ma cominciai così ad essere conosciuto e stimato da tanta gente.
Capitò poi che mi dovessi occupare della distribuzione del sale alla popolazione. Per non si sa quale motivo gli inglesi avevano affidato alla nascente Brigata e non alle autorità comunali di Casoli questa incombenza. Oggi viene da ridere al solo pensare che potesse esserci un problema del sale ma il problema c’era e come. Da mesi la gente mangiava senza sale o non poteva salare i pochi maiali scampati alle razzie tedesche. Così mi trovai ad affrontare, fin dalle sei del mattino, colonne di persone che venivano a prenotarsi per la distribuzione del sale: prendevo i nomi e il numero dei componenti di ciascuna famiglia e resistevo strenuamente ai tentativi di corruzione di chi cercava di accaparrarsi una razione maggiore. Quando poi il sale arrivava lo distribuivo e - vi assicuro - la sera ero stanco morto.
Del tutto casualmente mi capitò poi di partecipare alla liberazione del mio paese, Torricella. Nel primo pomeriggio dei 31 gennaio 1944, mentre bighellonavo per strada, fui chiamato da un autista inglese di nome Sam, che mi aveva preso in simpatia e mi regalava spesso caramelle e - perché no? - sigarette. Mi chiese se volevo andare con lui a Gessopalena ed io dissi di si. Il camion era carico di sassi e pietre che servivano alla riparazione delle strade. Arrivati a Gessopalena salutai l'inglese e mi unii ai patrioti del VII Plotone che presidiavano l'abitato e mi conoscevano. Qualche ora dopo il camion ripartì senza preavviso e così mi trovai bloccato a Gessopalena senza alcuna possibilità di avvertire i miei genitori che non sarei tornato per la notte.
Trascorsi la notte con i patrioti in una casa semidiroccata e nel primo mattino del giorno dopo udimmo bussare violentemente alla porta ed un uomo entrò urlando: i tedeschi hanno lasciato Torricella, non c'è più nessuno! Immediatamente i patrioti si prepararono e si armarono ed io chiesi al Tenente Salvati se potevo andare con loro. Salvati mi rispose: se lo sa tuo padre mi ammazza ma comunque vieni, in fondo è il tuo paese, e vedrai come te l’ hanno ridotto, ma stai sempre dietro di me e non commettere imprudenze. Dopo un'ora di cammino guardingo entrammo a Torricella distrutta e completamente deserta: ma questo fatto l'ho già raccontato altrove e non voglio ripetermi. Voglio solo dire che quando la sera tomai a Casoli (e in questo caso francamente non ricordo come) toccò a me dire a mio nonno che la sua casa, la casa in cui era nato e vissuto per quasi ottant'anni, la casa di mio padre e di tutti noi, non c'era più, era stata completamente cancellata dalle mine tedesche.
Dopo questa avventura tornai alla mia routine negli uffici del Comando della Brigata, che nel frattempo si era ingrandito e cominciava a riempirsi di scartoffie e non ho nulla di particolare da riferire se non che, tre o quattro volte, mi capitò, per mancanza di altre persone, di accompagnare al fronte i rifornimenti di armi, equipaggiamenti, viveri. Andavo a Torricella o a Lama dei Peligni con una camionetta Bedford guidata da un indiano, Jassu, che - anche lui - mi aveva preso in simpatia. Più volte sulla camionetta piovvero cannonate tedesche ma Jassu era bravissimo e ce la cavammo sempre con tanto spavento ma senza un graffio.
Nel mese di maggio, quando avevo ormai compiuto i quattordici anni scrissi un articolo per un libretto che si stampò a Casoli a mo' di “presentazione" della Brigata Maiella e che fu firmato "il più piccolo collaboratore dei Patrioti della Maiella".
Ma ormai la mia avventura volgeva al termine: gli americani avevano occupato Roma, il II Corpo Polacco occupava la Marsica, gli Inglesi avevano liberato Pescara e il Corpo Italiano di Liberazione era entrato a Chieti.
La famosa “linea Gustav” era finalmente infranta e i patrioti cominciarono a scavalcare la Maiella e a dilagare verso Sulmona e la Valle Peligna. Verso il 10 giugno anche il Comando della Brigata si mosse: su due scalcagnati camioncini lasciò Casoli per Palena da dove avrebbe proseguito a piedi. Saltai su una macchina assieme a mio padre, a Travaglini e ad altri patrioti, deciso a non mollare. A Palena trovammo i patrioti del IX Plotone con alcuni muli su cui vennero caricate le casse dei documenti. Osai l’ultimo tentativo: mi buttai alle ginocchia di mio padre e lo scongiurai; portami con te, ti prego, portami con te. Ma mio padre fu irremovibile: con voce dolce ma ferma mi disse: tu conosci a memoria tutte le carte che stanno sui muli, se le perdessimo non sapremmo cosa fare. Sei stato bravissimo, ci hai molto aiutato, ma non puoi venire. Ora sei l‘uomo di famiglia, devi pensare a tua madre e ai tuoi fratelli. E poi hai già perso per questa maledetta guerra un anno di scuola: presto potrete rientrare a Roma e tu dovrai tornare a studiare. Appena possibile ti chiamerò: vedrai che potrai presto rivederci, chissà dove".

Rividi ancora più volte la Brigata Maiella: a settembre a Recanati, dove era a riposo, e non vi dico la felicità che provai quando tutti quelli che mi avevano conosciuto a Casoli mi circondarono e mi abbracciarono: Nicola, Nicolino, sei tornato, non dovevi andartene, resta con noi. L'abbraccio con mio cugino Mario, non ancora diciannovenne, che era già stato ferito in combattimento e sarà poi decorato. Tornai ancora a trovare la "Maiella" a Modigliana e a Brisighella nel terribile inverno 44-45 e ancora a Castel S.Pietro vicino Bologna, dove era accantonata in vista dello scioglimento. Ed infine ero presente alla cerimonia dello scioglimento a Brisighella. Questo è tutto: non volevo tediarvi e spero di esserci riuscito.

Ma non posso chiudere senza ricordare il popolo, caro Senatore Marini, il nostro popolo abruzzese. Gli uomini che andarono a combattere in silenzio e con dignità e che tornarono senza vanterie, senza avanzare pretese o accampare privilegi. I tanti che non tornarono. Ma soprattutto le donne, le povere e silenziose donne delle nostre montagne che con i loro mariti, padri, figli dispersi nelle guerre fasciste o braccati nelle campagne o infine combattenti per la libertà, dovettero pensare non solo alla casa e ai figli, ma anche a badare alle campagne, unica fonte di vita. La loro fierezza, il loro coraggio, la loro determinazione, la loro incrollabile forza d’animo. . .
Ricordo quando a Casoli si affollavano attorno ai camion in partenza per il fronte per portare ai loro uomini l'ultima maglia di lana, l'ultima pagnotta di pane, l'ultima bottiglia di vino. Con gli occhi asciutti, senza una lacrima, senza un grido. Un acuto osservatore, grande mio amico di Casoli, quando uscì la prima edizione di questo libro, annotò: non sembravano uomini che andavano alla guerra, sembravano uomini che andassero al lavoro.
Con buona pace del senatore Borghezio, io "abruzzesi piagnoni" non li ho mai visti.

DESIDERO DEDICARE QUESTO MIO INTERVENTO ALLA MEMORIA DI MIO FRATELLO MICHELE, SCOMPARSO TRAGICAMENTE SETTE ANNI FA, CHE MI FU VICINO IN TUTTI I MOMENTI LIETI O TRISTI DELLA VITA. DA RAGAZZO LO TRATTAVO CON UN PO' DI SUFFICIENZA COME SI FA CON UN FRATELLO MINORE, MA DA ADULTO IL SUO RIGORE MORALE, LA SUA ASSOLUTA INTRANSIGENZA, IL SUO ANIMO INCORROTTO E INCORRUTTIBILE, MI IMPARTIRONO PIÙ VOLTE GRANDI LEZIONI DI VITA.
GRAZIE A TUTTI.

 


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