Lucio Beradinelli Stampa

DAI BANCHI DELLA SCUOLA UN’AMICIZIA DURATA UNA VITA

di Ezio Mattiocco

 

Il mio incontro con Lucio coincise col primo impatto con la scuola e con quel mausoleo di maestra dalla mole superba, issata sulla cattedra con la bacchetta in mano a dominare la trentina di ragazzetti della prima elementare, in gran parte ripetenti, tenuti immobili e fissi a braccia conserte sui banchi di legno allineati su tre file, maschietti da un lato, femminucce dall’altro. Al momento dell’ingresso in aula era esploso tutto il mio dissenso verso quella coercitiva decisione di famiglia di avviarmi all’appuntamento col sillabario ad anno già iniziato e prima ancora che compissi i sei anni prescritti.

 

 

«Per togliermi dalla strada», si disse. Preso dal panico puerile avevo protestato tutta la mia avversione a quell’incomprensibile sopruso, gridando che la scuola non mi piaceva e che non mi piaceva neppure la maestra perché - e qui la frase blasfema - «teneva pure li baffi». Insolenza inaudita, peccato mortale, che a me costò botte e tre giorni di pane e acqua e al parentado lo scorno di doversi scusare con la signora maestra che, dal canto suo, magnanimamente sollecitò il mio ritorno. Per la verità, una peluria un po’ troppo accentuata sotto al naso ce l’aveva sul serio, ma certamente non stava a me, aspirante scolaretto e per di più fuori quota, a sbandierarlo alla presenza della scolaresca che assisteva impietrita alla scena. Quando tornai in classe fui accolto da un sommesso brusio che credetti di ostilità. Fui assegnato al secondo banco della fila di mezzo. Per compagno avevo un tale un tantino cicciottello che, mentre prendevo posto, accennò ad un sorriso che mi parve di scherno. Mi sentivo morire per la vergogna e più struggente si fece il rimpianto della perduta libertà, dei prati della collina, degli angolini di Via XX Settembre.

Alla ricreazione di mezza mattinata, presente ancora l’insegnante in aula, nessuno abbandonò il proprio banco, pur avendo il permesso di parlare. Ed ecco il primo miracolo. In molti guardarono verso di me e mi fecero un cenno di saluto con la mano. Il compagno di banco si presentò: «Io sono Vincenzo e questo» – soggiunse indicandomi il brunetto piccolino che mi sedeva davanti – «è mio cugino. Si chiama Lucio e di cognome fa Berardinelli come me; l’altro è Armandino il figlio del veterinario». Poi, guardando verso la coppia della fila accanto, continuò: «quello è Mario Fiocca, l’altro è Amilcare Perpetua, i due del secondo banco sono Vincenzo Marchionna e Wladimiro Putaturo, il padre vende i quaderni», ci tenne a precisare, e poi dando una sbirciatina fugace verso destra, lapidario concluse: «Quelle sono le femmine, dietro stanno i ripetenti della Civita». In quel momento la maestra scese dalla cattedra e uscì nel corridoio. Tutti sciamarono garruli e felici. Poi, il secondo miracolo. In molti mi vennero intorno festosi dandomi del bravo e pacche sulle spalle. Ci misi un po’ a raccapezzarmi, ma alla fine fui certo che mi vedevano come una sorta di Golia, di uno che così piccolo aveva avuto il coraggio di ribellarsi all’autorità costituita, al mausoleo della maestra baffuta, ai suoi pizzichi, alla sua bacchetta. Li avevo conquistati e fummo amici, e tali restammo per tutta la vita. Stemmo insieme due anni e imparammo tante cose, perché la maestra che dispensava bacchettate e pizzichi, era anche brava. Quando con la famiglia me ne andai a Sulmona, Lucio e gli altri compagni li rivedevo alle vacanze. Poi, tra il ‘43 e il ‘44, con la sosta forzata a Castel di Sangro imposta dalla linea Gustav, che per mesi spezzò in due l’Italia, la frequentazione con quelli rimasti in paese come me fu più assidua, con Lucio in particolare. Non eravamo tantissimi in quei giorni, annidati tra le macerie di Castel di Sangro, e specie verso primavera ci ritrovavamo spesso nella barberia che i fratelli Nandino e Dante Pagliacci avevano aperto a Piazza dei Cannavini. Si parlava del più e del meno: del clima balordo di quell’inverno duro a morire anche in piena primavera, del vitto scarso, delle sigarette che non c’erano; ci scambiavamo notizie sulla guerra, facendo pronostici sul tempo della liberazione; qualche volta si parlava di ragazze, cercando di rammentare le vecchie compagne di scuola, ora divenute signorine, e spesso riaffiorava il ricordo della maestra coi baffi e della sua specialità in pizzichi e bacchettate, chiedendoci chissà dove fosse finita. Ci vedemmo per buona parte del mese di maggio, almeno fino a quando Lucio non fu ferito. Quel giorno eravamo come di consueto nella barberia dei Pagliacci. Lucio calzava un paio di stivali color cuoio, belli, tirati a lucido e, a quel che sembrava, comodi e morbidi. Glieli invidiavo, costretto com’ero ad accontentarmi di un paio di scarpacce vecchie di qualche anno, rinsecchite e accartocciate dalla neve di quel lungo inverno. La granata arrivò improvvisa, quasi senza preannunciarsi col consueto sibilo, e scoppiò tra i rami dell’albero che stava dirimpetto alla bottega. Fragore assordante, schegge impazzite, fumo, polvere. Passato il primo stordimento, la voce acuta di Lucio chiese se stavamo tutti bene. Così dicendo saltellava, ma di colpo avvertì dolore al polpaccio destro e si accasciò. Una scheggia gli aveva perforato lo stivale e si era conficcata nel muscolo. Lo accompagnammo nell’appartamento di un nostro amico che stava sopra a quel che era stato il Caffè Mattamira, al momento occupato dal Comando Alleato, e cercammo di fermare il sangue. A sera lo portarono all’ospedale di Isernia, dove ricoveravano tutti i feriti del paese. Fu l’ultima volta che lo vidi. Arrivati gli Alleati tornai a casa. Poi gli studi, gli esami, gli affanni del dopoguerra. Risalii a Castel di Sangro solo in autunno. Chiesi di Lucio. Mi dissero che si era arruolato assieme ai vecchi compagni di scuola, Wladimiro Putaturo, Amilcare Perpetua ed altri del paese nella Brigata Maiella e si trovava nelle Marche. Per anni non ci incontrammo. Per quasi mezzo secolo lui vagò tra l’Italia e il Sudamerica. Ma un bel giorno seppi che era tornato a Castel di Sangro. Ci rivedemmo. Eravamo un po’ cambiati. La neve era caduta sulle nostre teste, sulla mia più che sulla sua, ma i ricordi ci riportarono indietro negli anni: alla maestra, ai suoi pizzichi, ai vecchi compagni, alla bottega dei Pagliacci che, emigrati negli Stati Uniti, avevano cambiato quello strano cognome e ora si chiamavano Nando e Dante Pagi. Rammentando la loro barberia castellana, il pensiero andava immancabilmente alle cannonate e a quella guerra fatta in casa che aveva portato via i nostri sogni giovanili e anche Amilcare Pepetua, quello del primo banco, caduto in terra lontana. Una volta, una sola volta Lucio si lasciò andare a qualche ricordo di quei giorni. Mi raccontò dell’avventuroso viaggio per raggiungere i patrioti della Maiella nelle Marche, degli scontri in contrada Palazzina di Sopra, della conquista di Monte Castellaccio, dell’assalto a Monte Bicocca, dei contrattacchi tedeschi al Belvedere e al Monte della Sizza, dell’occupazione di Brisighella, delle Case Castiglioni, della Rocca e della Torre. Poi la sua malattia. Quando poteva, pur sofferente, veniva alle lezioni, specie quando sapeva che c’ero io. Erano occasioni per riandare per qualche istante al passato. Stemmo insieme anche alla commemorazione dei settant’anni della distruzione di Castel di Sangro. Mi fece anche la cronaca di quando fu ricevuto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con una rappresentanza della Brigata Maiella; ma quella storia la conoscevo, perché avevo visto la foto sul giornale.

 

 

Peggiorate le sue condizioni, gli incontri si fecero più rari. Il 7 agosto lo aspettai nel Convento della Maddalena alla presentazione del mio ultimo libro. Non venne, ma c’era la signora Anna Maria: «Lucio oggi non se la sentiva di uscire. Ha mandato me. Mi ha detto di dirti che sarà per la prossima volta». «Verrò a salutarlo appena tornerò a Castello», replicai. Non sono tornato in tempo, lui se n’è andato prima. Ho potuto solo accompagnarlo alla sua ultima dimora, ove ora riposa non lontano dalla nostra maestra della prima elementare, che teneva “li baffi” ma era brava. Dietro il suo feretro c’era la bandiera della Brigata, ch’era stata anche la “sua” bandiera.

Ezio Mattiocco