BANDA PALOMBARO Stampa

 

 

Scheda storica sui partigiani della Banda Palombaro, fucilati a Bussi dai nazisti il 14 dicembre 1943
     
     La vicenda dei dieci partigiani fucilati a Bussi è uno degli episodi più sconcertanti e drammatici della Resistenza abruzzese. Appartenevano alla Banda Palombaro, costituita a Chieti subito dopo l’8 settembre 1943. La banda contava un centinaio di unità ed era formata da un nucleo militare (comprendeva diversi ufficiali: alcuni della Divisione Legnano, stanziata alla periferia della città per proteggere la fuga del re; altri in servizio a Chieti; altri ancora rientrati nel capoluogo dopo lo scioglimento dell’esercito) e da un nucleo civile (ne facevano parte esponenti delle libere professioni, della scuola, del pubblico impiego, del ceto artigiano e operaio).
     Nell’ultima decade di settembre, mentre i tedeschi si stanno sistemando in città e dispiegano le truppe in provincia, il grosso della banda si trasferisce a Palombaro e dal 1 al 4 ottobre è impegnato in atti di guerriglia contro il nemico. Il 5 i tedeschi reagiscono sferrando un violento attacco con mezzi corazzati e lanciafiamme. Dopo avere resistito per l’intera giornata e subito la perdita di alcuni uomini, i partigiani sono costretti alla resa. Alcuni passano il fronte e si uniscono agli alleati; gli altri si disperdono sui monti e dopo qualche giorno tornano alla spicciolata nel capoluogo.
     Dopo lo sbandamento seguito alla rappresaglia tedesca, i partigiani della Palombaro trovano la forza e il coraggio di riorganizzarsi, arruolando nuovi combattenti tra i giovani e i giovanissimi. Compiono numerosi atti di sabotaggio; costituiscono un comitato politico clandestino (il CPLN); progettano di stampare e diffondere il foglio “Rinascita”, per preparare i cittadini a rinascere alla vita democratica. Ritenendo imminente l’arrivo degli alleati, preparano un manifesto per annunciare l’evento e accettano la proposta del tenente Fernando Tieri di tenere una riunione con due ufficiali inglesi, per organizzare la loro entrata in città. L’appuntamento è fissato per le ore 11 del 3 dicembre 1943, in una casa alla periferia di Chieti. Sono presenti: il maggiore Salvatore Cutelli; il capitano Menotti Guzzi; il tenente Marcello Mucci; i sottotenenti Leonida Mucci, Vittorio Di Carlo, Giuseppe Viola, Eugenio Bruno; il professore Domenico Cerritelli, il medico Luigi Colazillil’industriale Pietro Falco, il tornitore Romeo Migliori, il commerciante Angelo Prisco. Ma l’incontro è un tranello, ordito dai tedeschi con la complicità di Pietro Caruso, giunto a Chieti a capo di una banda di repubblichini (come questore di Roma, collaborerà con Kappler nella compilazione della lista dei condannati all’eccidio delle Fosse Ardeatine); il tenente Tieri è una spia infiltrata tra i partigiani e fa il doppio gioco; i due ufficiali “inglesi” sono tedeschi travestiti.  La casa è circondata; nella stanza della riunione irrompono SS e repubblichini armati, uccidono il capitano Trieste Del Grosso e arrestano gli altri dodici. I prigionieri sono trasportati lontano dalla città, rinchiusi nei locali di una scuola elementare aziendale del Comune di Bussi. Al gruppo chietino si unisce un certo Tracanna, di Roccamontepiano, arrestato perché in possesso di una radio ricetrasmittente. Per nove giorni i prigionieri sono interrogati e torturati.
     Il 13 la corte marziale emette la sentenza: Prisco e Migliori sono assolti, Tracanna trattenuto per ulteriori accertamenti, gli altri dieci condannati a morte mediante fucilazione, per complotto antitedesco e partigianeria. La mattina del giorno dopo sono fucilati sul Colle della Parata, un’altura poco distante dal Comune di Bussi. I corpi sono oltraggiati, sepolti ammucchiati sotto le macerie di una grotta, fatta saltare con la dinamite.

     A fine giugno 1944 i familiari, straziati dal dolore, operano il pietoso riconoscimento delle salme, esumate da 28 operai di Bussi; l’amministrazione comunale di Chieti, provvisoriamente guidata dal commissario prefettizio antifascista Domenico Spezioli, riconosce l’obbligo morale di provvedere al loro pagamento, considerando i patrioti “concittadini la cui onorata memoria è lustro e decoro per la città”. Il 2 luglio le dieci salme, caricate su camion allineati dinanzi alla Cattedrale di san Giustino, ricevono austere onoranze, con la benedizione di mons. Giuseppe Venturi, il fraterno saluto dei partigiani, la commossa partecipazione popolare ai funerali.
     Dopo la Liberazione, i familiari, col generoso contributo dei cittadini antifascisti dei due Comuni, provvedono a far erigere sul luogo dell’esecuzione un cippo a forma di croce, recingendolo provvisoriamente con filo spinato. Sui due bracci della croce fanno incidere i nomi dei dieci giustiziati sul Colle e, sulla sommità dell’asta verticale, il nome del capitano Trieste Del Grosso e la seguente epigrafe:

Ai Martiri della libertà / caduti gloriosamente / sotto il piombo tedesco / il popolo di Chieti / in ricordo / e monito perenne.

     Qualche tempo dopo, al posto del filo spinato, sono stati piantati undici alberi, che oggi formano attorno al cippo una protettiva “cappella arborea”.
     Negli anni seguenti, su progetto dell’architetto Giuseppe Colazilli, zio di Luigi, in onore degli undici Martiri, all’interno della cittadina fu eretto un piccolo artistico monumento di marmo, anch’esso a forma di croce, con l’epigrafe e i nomi incisi nello stesso ordine.
     A partire dagli anni Sessanta, il filo della memoria si è più volte spezzato, e i Martiri teatini hanno rischiato di essere, come ammonisce Piero Calamandrei, “morti per sempre per nostra viltà”. Dopo decenni di oblio, le due comunità, guidate dai sindaci Francesco Ricci e Marcello Chella, e l’ANPI della provincia di Chieti (presidente Guido Di Cosmo), a partire dal 14 dicembre 2007, sono tornate a onorarli con pubbliche cerimonie. Nel 2008 e 2009 hanno provveduto a restituire al monumento la struttura originaria, togliendo la lastra di marmo fatta sistemare alla base dall’amministrazione di centro – destra del Comune di Bussi, con l’elenco dei soldati e ufficiali del Comune  caduti nella seconda guerra mondiale (nell’elenco erano inseriti i nomi di un partigiano, di una “camicia nera” e di un milite della R.S.I. ) e ricollocando tra i Martiri   il nome del medico Luigi Colazilli, arbitrariamente cancellato.

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BREVI SCHEDE DEI CATTURATI


Trieste Del Grosso – Nato a Chieti, 28 anni, capitano di artiglieria, combattente in Grecia (fu ferito a un fianco), scultore (ha frequentato l’Accademia di Belle Arti), sposato con tre figli.
Marcello e Leonida Mucci – Nati a Chieti, Marcello 25 anni, Leonida 23, orfani di entrambi i genitori, ufficiali (Marcello tenente, Leonida sottotenente).
Giuseppe Viola – Nato a Chieti, 25 anni, cugino di Guido Di Cosmo (1), tenente.
Vittorio Di Carlo – Nato a Chieti, 23 anni, orfano di padre, diplomato al Liceo Scientifico, tenente.
Luigi Colazilli – Nato a Chieti, 26 anni, non ufficiale (riformato per problemi cardiaci), laureando in medicina, uno dei fondatori dell’associazione antifascista Italia Libera di Chieti.
Pietro Falco – Nato a Chieti, 44 anni, industriale (proprietario di una fornace per la fabbrica di laterizi nella zona del Tricalle), grande amico di Migliori (hanno frequentato insieme l’Istituto Tecnico Industriale), ha finanziato la Banda Palombaro.
Domenico Cerritelli - Nato a Chieti, 30 anni, professore di Latino e Greco al Liceo Classico “G.B.Vico”, repubblicano.
Eugenio Bruno – Nato a Rapino, anni 22, impiegato postale.
Menotti Guzzi – Nato a Catanzaro, 44 anni, avvocato, capitano, capo militare della Banda Palombaro.
Salvatore Cutelli – Nato a Chiaramonte Gulfi (provincia di Ragusa), 49 anni, licenza liceale, ha partecipato alla prima guerra mondiale, nel 1942 richiamato alle armi. Maggiore, uno dei comandanti della Divisione Legnano. Molto coraggioso (insignito di Medaglia d’Oro alla memoria.
Angelo Prisco – Nato a Chieti, commerciante.
Romeo Migliori – Nato a Chieti, 55 anni, tornitore, comunista, perseguitato dai fascisti,
più volte arrestato per le sue idee politiche.

                               Filippo Paziente (2)

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(1) -  Guido di Cosmo: appartenente alla Banda Palombaro e successivamente confluito nei ranghi della Brigata Maiella; attuale Presidente dell’omonima Associazione Nazionale.
(2) - Filippo Paziente: Professore, storico. - Opere: “Chieti e la sua provincia. Fascismo, chiesa, occupazione germanica. 1929-1944”  –  “I Martiri Partigiani di Chieti”.

 



I Martiri partigiani di Colle Pineta

Relazione letta l’11 febbraio 2006, nel corso di una seduta straordinaria del Consiglio comunale di Chieti, tenuta per onorare la memoria del sacrificio dei nove partigiani fucilati dai tedeschi.

   

Per molti dei presenti i 12 partigiani processati in quest’aula sono solo dei nomi, pertanto ritengo utile, nel mio breve intervento, tracciare di ciascuno un rapido profilo biografico, accennare all’attività svolta all’interno della “banda Palombaro”, ricordare la concessione di riconoscimenti al V.M. alla memoria e chiarire i seguenti punti:
1.    perché diventarono banditi;
2.    chi li ha catturati, quando e come;
3.    gli interrogatori;
4.    il processo: perché in quest’aula; la corte marziale; i testimoni; il ruolo delle autorità cittadine; la sentenza; il tentativo di fuga; le ultime lettere; la grazia a tre condannati; l’esecuzione degli altri nove.
Pietro Cappelletti – Aveva 28 anni, abitava in Via S. Agata. Era meccanico; da giovane aveva lavorato con la Ditta Camplone di Pescara, da sposato con la Ditta Calvi di Chieti. Aveva una figlia in tenera età, di nome Maria Teresa, presente in aula. Per lavoro, era emigrato in Germania, quindi conosceva il tedesco. Tornò a Chieti dopo l’8 settembre 1943. Era socialista e aderì subito alla “banda Palombaro” partecipando, ai primi di ottobre,  ad azioni di guerriglia nella zona di Palombaro. Con un altro partigiano, il giovane Adalgiso Di Pietro, fu incaricato di far saltare un ponte e una galleria lungo la strada per Lama dei Peligni. Catturati dai tedeschi, Adalgiso fu fucilato, Pietro si salvò con la fuga. Tornato a Chieti, per tre mesi riuscì ad evitare la cattura. Durante gli interrogatori, gli fu offerto di aver salva la vita se avesse accettato di far l’interprete: si rifiutò di collaborare e i torturatori si accanirono contro di lui. Ha ricevuto una Medaglia di bronzo al V.M. alla memoria e una Croce al merito di guerra.
I fratelli Grifone – Erano sei fratelli, quattro maschi e due femmine; i maschi si chiamavano Umberto, Guido, Alfredo e Aldo, rispettivamente di 28, 25, 23 e 20 anni. Erano tutti operai: Umberto elettrotecnico, Guido autista, Alfredo elettromeccanico e Aldo elettricista. Abitavano nella zona del vecchio carcere di S. Francesco. Ho intervistato Umberto prima della morte; mi ha detto che il padre Giustino era una “camicia bianca”. Tutti di orientamento socialista, si erano formati alla scuola di Romeo Migliori. Il più politicizzato era Alfredo, che con Romeo “si spartiva il sonno”. Tutti e quattro si aggregarono alla “banda Palombaro”, combatterono contro i tedeschi e furono arrestati. Umberto fu liberato, Guido graziato all’ultimo momento, Aldo e Alfredo fucilati. Alfredo, che sotto le armi era stato riformato per astigmatismo, quindi non era né renitente né disertore, fu decorato di medaglia d’oro al V.M. alla memoria, per “l’ardimento, il senso del dovere e la dedizione alla causa della libertà”.
Stelio Falasca e Massimo Di Matteo – Erano vicini di casa, nel Vico I Santa Maria (oggi Via Mazzetti). Erano coetanei (entrambi diciottenni) e amici inseparabili dall’infanzia. Insieme avevano frequentato le scuole elementari e medie; Stelio si era iscritto al Liceo Ginnasio “G. B. Vico”, Massimo all’Istituto Industriale, ma sognava di diventare vigile del fuoco. Insieme entrarono nella “banda Palombaro”, procurandosi e nascondendo armi e munizioni, e furono impiegati come messaggeri (Stelio operò anche a Palombaro e fu coinvolto negli scontri armati). Insieme furono catturati, torturati, processati e fucilati (i loro corpi furono ritrovati sepolti in disparte, in un angolo, l’uno accanto all’altro, fraternamente uniti anche nella morte). A Stelio fu concessa la Medaglia di bronzo al V.M.
Aldo Sebastiani – Era il più giovane (quando fu giustiziato, aveva compiuto 17 anni da poco più di un mese). Abitava in Via Mater Domini ed era apprendista meccanico. Il 23 settembre 1943 – all’età di 16 anni e mezzo – era nel gruppo della banda che si recò a Palombaro con due automezzi e un carico di armi e munizioni (nel gruppo erano anche Falasca, Luigi Colazilli – uno dei fucilati di Bussi -  Cappelletti e Floriano Finore). Secondo U. Grifone, Aldo era uno dei giovani più ardimentosi.
Raffaele Di Natale – Di anni 30, era il meno giovane dei dodici. Abitava in Via Santa Maddalena, era sposato e aveva due figlie in tenera età. Faceva il venditore ambulante. Nativo di Palombaro, per la conoscenza diretta della zona ove operò la banda, ebbe un ruolo importante per il trasporto da Chieti e la sistemazione logistica dei nuclei partigiani e del materiale bellico. Per avere aiutato gli ex prigionieri inglesi a passare il fronte, fu uno dei più torturati.
Vittorio Mannelli – Aveva 23 anni, abitava in Via Gennaro Ravizza, forse era un pugile (oppure pugile era il fratello Cesare). U. Grifone mi ha detto che i due fratelli erano il terrore della Civitella, erano svegli, forti. Vittorio era soprannominato Musulin, perché gli piaceva comandare ed era il capo riconosciuto dei giovani antifascisti del quartiere. Nella banda ebbe il compito – e lo svolse con abilità – di mantenere i collegamenti tra i gruppi operanti a Palombaro, a Rapino e nel capoluogo. È sepolto nel Sacrario Militare e sulla piccola lapide è inciso che ricevette la Medaglia di bronzo.
Floriano Finore – Unico superstite dei processati, è presente in aula; abbiamo visto e sentito nel filmato la sua testimonianza. Io mi limito a ricordare che è nato a Tollo nell’ottobre del 1925 (quindi, aveva 18 anni quando fu arrestato), ma abitava in Via S. Maria (oggi Via degli Agostiniani), vicino a Romeo Migliori. Era fattorino delle poste e conosceva bene il dott. Luigi Colazilli, figlio di Silvio Colazilli, impiegato delle Poste. Il 23 settembre 1943 faceva parte del gruppo che si trasferì a Palombaro e ai primi di ottobre prese parte alle operazioni della banda contro i tedeschi. Per sua fortuna, fu uno dei tre graziati.
Giovanni Potenza – Di questo giovane sappiamo ben poco. Aveva vent’anni ed era manovale, abitava in Via Sant’Agata, vicino a Cappelletti. Fu graziato insieme con Finore e Guido Grifone.
Nicola Cavorso - È l’intellettuale del gruppo. Aveva 23 anni e abitava al Largo del Teatro Vecchio. Benché orfano di padre, si era diplomato al Liceo Scientifico “F. Masci” nell’anno scolastico 1939-40. Era studente universitario, laureando in matematica e fisica all’Università di Roma (dopo la Liberazione, gli è stata conferita la laurea honoris causa in queste discipline). Tornato a Chieti dopo l’armistizio, entrò nella “banda Palombaro” e, con una radio ricetrasmittente, dalla fornace di Pietro Falco, al Tricalle, mantenne i collegamenti con gli inglesi, utilizzando il nome in codice di Tommaso Moro. Fece parte del CPLN, costituito a Chieti nell’ottobre del 1943, come rappresentante del Partito d’Azione.
     Avrete notato, oltre alla giovane e giovanissima età, che cinque dei dodici partigiani (Falasca, Di Matteo, Finore, Cappelletti e Potenza) abitavano nel quartiere di Santa Maria che i chietini conoscono bene. Questo quartiere era tenuto sotto stretta sorveglianza dalla polizia politica per la presenza di piccoli covi di antifascisti. C’erano la casa e l’officina di Romeo Migliori, comunista schedato, un uomo mite che non aveva mai fatto male a una mosca, eppure era preventivamente recluso in Camera di sicurezza o al S. Francesco ad ogni celebrazione di regime o visita di gerarca nazionale. Quasi di fronte all’officina abitava il prof. Domenico Cerritelli, che insegnava Lettere al Liceo Classico, antifascista repubblicano, fucilato a Bussi. C’era la bottega del fabbro Luigi Zulli, vecchio socialista, che raccontava ai compagni l’aggressione a calci e pugni subita il 6 aprile 1922 da un gruppo di nove squadristi, i quali penetrarono di notte nella sua abitazione sfondando la porta, armati di pugnali, coltelli e bastoni. C’era la tintoria Odorisio, in Via dei tintori, con un nucleo di operai comunisti capeggiati da Nicola D’Addessa. C’era la bottega del fioraio Adalgiso La Cioppa, che i più anziani del quartiere ancora oggi ricordano purgato dai fascisti. C’era la cantina di Rocco Michetti, dove ora c’è l’ufficio postale, che ha salvato molti uomini, nascondendoli, quando i tedeschi e i fascisti, spesso guidati dal famoso Cascatell, scendevano da S. Giustino o per Via Toppi, a caccia di operai per il servizio del lavoro (e il suo non è l’unico esempio di resistenza civile ).
     Perché i dodici diventarono banditi? Certamente per sfuggire ai bandi e ai rastrellamenti per il servizio del lavoro e per l’arruolamento nell’esercito repubblicano, ma anche per spirito d’avventura; per un’istintiva reazione ai patimenti della guerra e alle violenze dei tedeschi invasori e dei fascisti; infine, per una più o meno chiara spinta ideale: l’amore per la Patria e per la libertà, la speranza o la fede in un futuro migliore. Molti giovani, invece, liberamente o per costrizione, si arruolarono nella GNR; alcuni furono semplici esecutori di ordini; altri, per fanatismo ideologico, per opportunismo o per lucro, collaborarono come delatori – qualcuno anche come torturatore - con la “banda Fioresi”, partecipando alla caccia degli uomini per il servizio del lavoro e alla cattura dei partigiani e degli ex prigionieri.
     Il tenente Mario Fioresi giunge a Chieti il 10 dicembre 1943, mentre a Bussi si sta svolgendo il processo ai dodici partigiani catturati una settimana prima in una casa vicino alla chiesa del Sacro Cuore (dieci saranno fucilati il 14 dicembre). È raccomandato ai fascisti repubblicani, come capo della polizia politica, da Pietro Caruso, che prima di lui ha diretto a Chieti questo corpo speciale (Caruso sarà questore di Roma e completerà la lista dei prigionieri che saranno trucidati alle Fosse Ardeatine). Fioresi agisce con poteri straordinari. Con elementi della P.S. e della milizia repubblicana, costituisce una banda, che si specializza in aggressioni, estorsioni e ruberie e intensifica la collaborazione col Comando tedesco per annientare la “banda Palombaro”. I componenti superstiti della banda si muovono con estrema prudenza e segretezza, ma il tenente organizza un’efficiente rete di spie e collaborazionisti, che controllano le diverse zone della città, gli riferiscono l’identità, i nascondigli e i movimenti dei sospettati di partigianeria e gli permettono di scoprire, arrestare, torturare, far processare ed eliminare i più giovani e inesperti: appunto i dodici processati. Dai documenti e dalle testimonianze sono emersi i nomi dei numerosi elementi della banda e di quelli che si sono distinti come delatori e torturatori.
     Per catturare i partigiani, Fioresi agisce in questo modo. Vagliate le informazioni ricevute dalle spie, guida personalmente un nucleo della banda, con un blitz a sorpresa fa circondare la casa o il nascondiglio del partigiano e procede al suo arresto, trattenendolo per qualche giorno in Camera di sicurezza per  interrogarlo. Se il ricercato è sfuggito alla cattura, utilizza altri metodi. Il primo: fa “arrestare” insospettati delatori, come Tommaso De Liberato, detto Fuffù, e Michele Colalè, e li infiltra tra i prigionieri, per carpire informazioni. Il secondo metodo è più crudele: prende in ostaggio un genitore – meglio la madre che il padre - o la moglie del ricercato, il quale, per liberarli, si consegna nelle sue mani. Con questo metodo cattura Di Natale, Sebastiani e Di Matteo.  
Dall’uso di tali metodi si intuisce che i dodici giovani non sono arrestati tutti lo stesso giorno, come quelli giustiziati a Bussi, ma in giorni diversi, a gruppi o da soli, dal 16 gennaio al 1° febbraio. In Camera di sicurezza Fioresi ed altri della milizia li interrogano alla presenza dei delatori e, per estorcere confessioni, infliggono ai prigionieri crudeli torture. Numerose e impressionanti sono le testimonianze dei familiari sulle torture subite dai dodici processati, ma poiché qualcuno è presente in aula, mi limito a riportare una testimonianza di Romeo Migliori sulle torture inflitte a Pierino Verna, un partigiano arrestato, come lui, insieme coi dodici, ma non processato [Pierino era figlio di Francesco Verna, un orologiaio socialista molto noto in città, aveva il laboratorio in Via Arniense, dove ora c’è la Macelleria Di Marco]. Ha scritto Migliori, in un Quaderno di memorie:

     Abitudine caratteristica di Fioresi era quella di interrogare i prigionieri a notte inoltrata, cioè verso le due e le tre, tutto ubriaco, sfogava la sua ira sopra la povera gente interrogata […] La terza notte fece prelevare il giovane Pierino Verna.  Non dimenticherò mai come lo fece ridiscendere al tavolaccio…Tutto pesto di vergate di ferro, il viso non gli si riconosceva più. Grondava sangue da per tutto. Le braccia immobilizzate. Le gambe e la vita livide… Non si poteva né coricare, né sedere, doveva stare solo in piedi, senza poter dormire.

 Terminati gli interrogatori, Fioresi fa rinchiudere i dodici prigionieri in carcere, a disposizione del tribunale di guerra tedesco.
Perché il processo si è svolto in quest’aula e non nel vicino Palazzo di giustizia? Ai primi di febbraio sono iniziati i preparativi per tenerlo nell’aula del Tribunale Penale, ma proprio in questi giorni la città è ripetutamente bersagliata da bombardamenti di artiglieria degli alleati, che provocano danni e qualche vittima e l’8 colpiscono e rendono inagibile il Palazzo di giustizia. Il processo è gestito da un tribunale di guerra composto di un imprecisato numero di ufficiali tedeschi e dura solo due giorni (i giudici hanno fretta perché il fronte è ormai vicino). Gli imputati sono nuovamente interrogati, senza l’assistenza di un avvocato difensore e senza testimoni a discarico. Come testimoni a carico, nell’aula sono presenti i delatori e alcune autorità: il tenente colonnello di cavalleria Guido Massangioli, che nel settembre 1943 ha ospitato nel suo palazzo Mafalda di Savoia, prima che fosse deportata a Buchenwald, ma ora collabora coi tedeschi; il console Giuseppe Allavena, 1° seniore della GNR; il vice podestà ing. Giuseppe Florio; il presidente della Provincia Carlo Travaglini. Secondo Angelo Meloni, autore di Chieti città aperta, e Francesco Elia Di Rico, segretario comunale e autore di Chieti nel periodo dell’occupazione tedesca, il podestà Alberto Gasbarri ed altre autorità intercedono presso il Comando germanico e il tribunale militare per ottenere un atto di clemenza, ma i giudici lo rifiutano perché gli imputati sono rei confessi (i due citati autori, però, entrambi compromessi col fascismo fino all’8 settembre, tacciono sulle torture con cui Fioresi e i suoi complici hanno estorto le confessioni). I familiari presentano domande di grazia e si rivolgono all’arcivescovo di Chieti Giuseppe Venturi, ma le domande sono intercettate e annullate da Fioresi. Il 10 è emessa la sentenza di condanna a morte per atti di partigianeria (uccisione di soldati tedeschi, atti di guerriglia, detenzione di armi e munizioni, possesso e uso di radio ricetrasmittenti per i collegamenti con gli alleati, aiuto fornito agli ex prigionieri).  Secondo Meloni, tutti e dodici gli imputati sono condannati all’impiccagione per il reato di tradimento, ma, in seguito all’intervento dell’arcivescovo presso il Comandante supremo del settore adriatico, all’ultimo momento Finore, Potenza e Guido Grifone sono graziati e per gli altri nove la sentenza viene eseguita nella forma militare (la fucilazione). Tale versione, però, nel suo libro non è adeguatamente documentata e la concessione della grazia ai tre partigiani rimane un problema storico aperto. Pietro Cappelletti, che conosce il tedesco, capisce la sentenza e la comunica ai compagni. I prigionieri compiono un disperato tentativo di fuga, scoperto e denunciato da due guardie carcerarie ai tedeschi, che decidono di affrettare l’esecuzione. Concedono, però, ai condannati a morte di scrivere un’ultima lettera ai familiari (è l’unico gesto di pietà). Sono ora note sette lettere: due di Stelio Falasca, due di Nicola Cavorso, una dei fratelli Grifone, di Pietro Cappelletti e di Raffaele Di Natale. Noterete, ascoltandole, l’assenza di accuse e di parole di odio verso i torturatori e gli ufficiali del tribunale militare: i condannati sanno che le lettere sono sottoposte a censura da parte di Fioresi e temono che  non siano recapitate ai propri cari.                               

I tre graziati restano in carcere nell’attesa di essere deportati, poiché la loro condanna a morte è stata commutata in 30 anni di lavori forzati in Germania. Gli altri nove sono fucilati l’11 febbraio, nelle prime ore del pomeriggio, in una vecchia cava d’argilla abbandonata, a Colle Pineta di Pescara, e sepolti, senza casse, in fosse scavate da soldati russi. Un testimone assiste all’esecuzione e, dopo cinque o sei mesi, permette il ritrovamento dei corpi. Subito dopo la Liberazione i familiari eressero a proprie spese un cippo sul luogo dell’esecuzione, dove questa mattina, come ormai avviene da diversi anni, si è svolta la manifestazione commemorativa dei nove martiri. Oggi, per iniziativa di questa Amministrazione comunale,  stiamo  onorando la loro memoria e quella  degli altri tre processati, per la prima volta in quest’aula, dopo 62 anni. Permettetemi di concludere  dicendo: era ora.
                                                                         

Filippo Paziente